Farsi Storia

Questo è l’ultimo degli articoli extra-redazionali pervenuti per il terzo numero di FSFSG e selezionati per il blog! La prossima settimana, il 31 marzo, uscirà il quarto numero della rivista dedicato all’Odio!  
Buona lettura! 

Nietzsche, Murakami e il peso del tempo
di Francesco di Perna

copertinaIl tempo è l’unica cosa che possiamo perdere, potenzialmente, nella sua totalità e che possiamo guadagnare in misura insignificante. Ironia della sorte, è così spietato che perderlo significa perdersi.
Quando l’uomo si trova davanti al cambiamento, che gli sembrerà repentino, avverte lo scorrere del tempo. È un processo al quale non si abituerà mai, perché il tempo è stato incastrato in una cornice che non gli appartiene: la misurazione. Il paradosso del tempo sta nel fatto che è misurato ma non misurabile: un orologio non segna lo scorrere del tempo, ma quello delle lancette alle quali abbiamo affidato l’ingrato compito di darci una vaga idea del suo fluire.
La convenzione che vede il tempo imprigionato in un orologio, per quanto preciso quest’ultimo possa essere, si rivela inutile nel momento in cui l’uomo non riesce ad abituarsi all’unico metodo in suo possesso che gli permette di farsi un’idea sull’incedere del tempo: la consapevolezza del cambiamento, dell’impatto esterno su di sé e del proprio impatto sull’esterno. Quest’ultimo è stato chiamato dall’uomo “storia”, spesso con la “S” maiuscola, e ci si diletta ad insegnarlo nelle scuole. Il filosofo Walter Benjamin, nel suo saggio Il compito del traduttore del 1923, definiva la storia (con l’iniziale volutamente minuscola) come la capacità di un soggetto di lasciare il proprio impatto sul divenire delle vicende del mondo e di essere a sua volta influenzato dalle stesse vicende, le quali si rivelano essere nient’altro che gli impatti di tutti gli altri soggetti sullo svolgersi degli eventi del mondo. Allora il tempo, se per l’uomo non è la “storia”, diventa soltanto un’unità misurata totalmente arbitraria e relegata al valore funzionale che le viene assegnato. Un susseguirsi di segmenti che, correttamente allineati, condurranno ad un fine ultimo irraggiungibile e apparentemente insensato, come tutti quanti gli scopi più profondi della vita umana. In un attimo, l’uomo ha perso il tempo, se lo è lasciato scivolare via dalle mani, allontanandosi volutamente da esso e non rendendosi conto del proprio ruolo nel processo.
Nel suo romanzo Norwegian Wood, lo scrittore Haruki Murakami compie un’operazione stilistica molto precisa: elimina completamente alcune parti della storia, la quale si svolge in un arco temporale ben preciso, e descrive con una forza data dai dettagli il susseguirsi degli attimi in altre parti. Non è un metodo insolito, moltissimi scrittori sorvolano su punti della trama non cruciali e si concentrano su altre situazioni, anche molto specifiche. Ma a Murakami non interessa la trama: interessano gli istanti, quelli di cui Watanabe, il protagonista del romanzo, vorrebbe essere pienamente padrone e che invece gli si rovesciano addosso, quegli istanti che spesso, durante la lettura, appaiono insignificanti, ma dei quali si ritrova sempre una traccia con il procedere della storia.
Non ha “perduto” il tempo, ne ha lasciato una parte nascosta rispetto alla sua storia, consapevole dell’impatto che essa ha avuto su di lui, ma incapace di ricordarla perché troppo dolorosa o non compresa. Una dichiarazione di fallibilità vera e propria da parte dell’autore in quanto uomo che non riesce a controllare il suo tempo perché non è capace di trovare un criterio di valutazione immediato degli istanti che lo compongono. Ognuno di essi è potenzialmente un impatto cruciale sul divenire dei nostri eventi, e non va misurato nella sua estensione nel presente, ma nel suo impatto a livello “storico” nel futuro.
La prospettiva del tempo posta dal filosofo Nietzsche, come soluzione del problema, è allettante: concepirlo come un eterno ritorno degli istanti del passato, che lo Übermensch, l’oltreuomo (capace di superare il fallace meccanismo del tempo lineare ormai accettato da tutti quanti gli altri uomini), riesce a fare propri in modo da rendere questo eterno ritorno un fenomeno consapevole. L’eterno ritorno del tempo imbrigliato dall’oltreuomo coinciderebbe con la raggiunta felicità, che avrebbe abbandonato del tutto la prospettiva di progettualità e sacrificio di un istante del tempo in favore di un altro, futuro e ben più importante, più capace di renderci felici. Nel disegno di Nietzsche, ogni momento deve essere felice, non in quanto unico, ma in quanto deliberato dall’oltreuomo. L’oltreuomo che non siamo, e che non saremo mai.
Murakami e i personaggi che egli tratteggia in Norwegian Wood non sono oltreuomini perché non sono felici, e non sono felici perché se lo fossero sarebbero oltreuomini: la felicità è allo stesso tempo il fine e il presupposto della teoria di Nietzsche, che immagina l’oltreuomo come figura che si forma impattando sulle vicende del mondo attuale e allo stesso tempo subendo l’impatto di un mondo che non è quello terreno. L’oltreuomo stesso ha compreso fino in fondo il processo del tempo al punto tale da seguirne l’esempio nello sviluppo della propria individualità di oltreuomo, non di uomo. Watanabe, letteralmente travolto dalle vicende del suo tempo, che diventano la sua storia alla fine del romanzo, quando diventa consapevole dell’impatto che avrebbe potuto lasciare sullo scorrere del tempo, osservando la folla che lo circonda e sentendosi impotente, se l’è lasciato sfuggire. Fallisce, l’uomo di Murakami, come fallisce l’uomo al di fuori dei romanzi nel rendersi conto di come il tempo non sia un flusso di istanti vuoti da sfruttare a proprio piacimento, ma una corrente di momenti sulla quale agisce l’impatto degli altri uomini e che andrà ad impattare anche su di noi, in un modo che non possiamo prevedere. La crudeltà del tempo sta nel rendersi così fragile al punto che l’unico modo per mantenerlo vivo e solido, per non perderlo, è trasformarlo in “storia” e trasformarci a nostra volta in “storia”: capaci di modificare il tempo e consapevoli che esso può modificarci, pronti ad afferrare l’istante e allo stesso tempo aspettandolo. La stessa storia, rigorosamente (e ingiustamente) con la “S” minuscola, in cui vive un romanzo.

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Francesco Di Perna nasce nell’estate del 2000 a Corato e vive a Trani, dove cerca di scrivere perché ciò gli permette di pensare e capire come fare tutto il resto.

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